Archivio Storico Fondazione ISEC

Le parole del lavoro in pausa pranzo: dalla schiscêta alla mensa

Ercole Marelli, mensa offerta ai disoccupati dal Dopolavoro, Sesto San Giovanni, 1948. Archivio storico Ercole Marelli.
Ercole Marelli, mensa offerta ai disoccupati dal Dopolavoro, Sesto San Giovanni, 1948. Archivio storico Ercole Marelli.

Presentiamo un percorso sul mangiare in fabbrica attraverso le parole di lavoratori e lavoratrici di Sesto San Giovanni, testimonianze raccolte nell’archivio di ISEC: si tratta di tre fondi sonori e audiovisivi riordinati e analizzati in occasione del progetto “#LeParoleDelLavoro. Lessici legati a saperi tecnici e produttivi a Sesto San Giovanni nel Novecento”, realizzato nel 2019 con il contributo di Regione Lombardia nell’ambito dei finanziamenti per la salvaguardia e la valorizzazione del Patrimonio Culturale Immateriale e della lingua lombarda.

In fabbrica mangiare con le mani un pasto frugale portato da casa è stata la pratica quotidiana di uomini e donne fino a gran parte nel Novecento. Sedersi a un tavolo con le stoviglie era invece una cosa “da signori”: la conquista del diritto di consumare un pasto caldo anche al lavoro, cucinato appositamente anche se non proprio espresso, in uno spazio dedicato e organizzato è stato un processo graduale per i lavoratori e le lavoratrici, proporzionalmente alla industrializzazione che ha significato anche un progressivo miglioramento delle condizioni di lavoro. Una parabola quella del mangiare in fabbrica che riflette il percorso della fabbrica stessa, e del lavoro nel corso del Novecento.

Il pasto dell’operaio, Milano, anni Cinquanta. Fondo Odoardo Fontanella.
Il pasto dell’operaio, Milano, anni Cinquanta. Fondo Odoardo Fontanella.

Attraverso la memoria di lavoratori e lavoratrici di Sesto San Giovanni è possibile ripercorrere le trasformazioni avvenute nel corso del Novecento: se inizialmente il cibo era portato da casa e mangiato in reparto, o il pranzo veniva acquistato e consumato velocemente appena fuori dalla fabbrica, nelle osterie, nelle cucine economiche o nei ristoranti operai, nel corso del secolo si approda prima ai refettori locali predisposti al consumo del cibo con tavoli e spesso scaldavivande o cucine economiche per riscaldare cibo cucinato altrove – e successivamente alle mense presidio aziendale che provvede a preparare e distribuire il cibo in locali per il consumo con annesse cucine.

I lavoratori ricordano la mensa come una conquista, il riconoscimento di un diritto, un miglioramento importante delle condizioni all’interno della fabbrica, ottenuto con scioperi e lotte.

Mensa popolare, Milano, fine anni Quaranta. Fondo Odoardo Fontanella.
Mensa popolare, Milano, fine anni Quaranta. Fondo Odoardo Fontanella.

Il primo ricordo sul mangiare in fabbrica è spesso proprio l’ottenimento delle mense aziendali nel lungo decennio di lotte a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, come sottolineano sia un impiegato della Breda che un’operaia della Oms:

«[Alla Breda] c’è stata una lotta per la mensa: prima del settembre 1973 la mensa non c’era − c’era precedentemente e poi era stata smantellata; la gente mangiava vicino al forno con la schiscêta; non c’era la pausa, non si usciva a mangiare.

Uscivano i giornalieri che avevano una pausa di un’ora, non i turnisti: i turnisti mangiavano senza fermare gli impianti, quindi mangiavano sul posto di lavoro, e i turnisti erano la maggioranza. Mensa a prezzo politico perché la mensa era considerata salario differito. E la mensa non solo è stata un servizio che ha permesso di fare più dignitosa la vita delle persone, ma è stata anche il luogo nel quale poi si potevano fare le assemblee». [G.U., 2014, Fondo Dismissioni_FDT]

«Ad esempio il problema della mensa: noi fino al 1974 non avevamo la mensa e il lavoratore si portava da casa la schiscêta o al limite a mezzogiorno andava a mangiare al bar. E abbiamo invece ottenuto il pasto caldo che ci viene fornito da fuori, anche perché qui alla OMS per problemi di spazio fino ad adesso non si è potuto realizzare la mensa aziendale perché è gestita dalla fabbrica. Per cui noi puntiamo a questo risultato, che secondo noi è molto importante per i lavoratori, e poi penso che è una conquista sociale molto importante per tutti i lavoratori che anche noi avendo il pasto caldo non ci si può lamentare tanto, però abbiamo sempre dei grossi problemi, perché ogni giorno c'è qualcosa che non va, per vari motivi: la qualità, la quantità, il problema a volte è anche di trovare anche degli oggetti nei pasti». [A.L.C. 1979, Fondo Crespi_SSG]

Cucina della Ercole Marelli, anni Trenta, Sesto San Giovanni. Archivio storico Ercole Marelli.
Cucina della Ercole Marelli, anni Trenta, Sesto San Giovanni. Archivio storico Ercole Marelli.

Tutti e tutte raccontano il passaggio dal pasto individuale alla mensa aziendale come un’evoluzione perché prima erano costretti a mangiare in poco tempo e “sul posto di lavoro” o al massimo nei refettori, come descrive efficacemente un altro impiegato della Falck:

«Allora tutti i reparti avevano un refettorio, ma dove non si cucinava: gli operai si portavano la schiscêta. Avevano degli scaldavivande, la mettevano lì e poi mangiavano.

Poi successivamente ogni stabilimento aveva la sua mensa, una mensa di reparto: per esempio l’acciaieria e il laminatoio avevano la loro mensa, perché lì i turni erano talmente veloci che c’era la mensa centrale che mandava lì il cibo oppure addirittura potevano cucinare qualcosa lì al momento. La mensa si pagava pochissimo». (R.F. 2013, Fondo Dismissioni_FDT)

Mensa operaia della Breda, Sesto San Giovanni (Milano), 1920-1930. Archivio storico Breda.
Mensa operaia della Breda, Sesto San Giovanni (Milano), 1920-1930. Archivio storico Breda.

La mensa dunque permette di superare una condizione “obbrobriosa”, come la definisce un gruista dell’acciaieria Falck:

«A pranzo finché non c’era la mensa si mangiava dentro con la famosa schiscêta, poi la mensa è stata una delle prime conquiste che abbiamo avuto. Ci si arrangiava, a volte si comprava salame, bologna, con qualche panino. E insomma, è diverso andare in mensa che mettere la schiscêta vicino al calore per scaldarla.

Poi si mangiava in reparto, in mezzo a polvere e rumore, non abbandonavi mai il posto di lavoro, anche se noi in ogni reparto avevamo una specie di gabina e si entrava lì: ma era un obbrobrio se vogliamo proprio dirlo. 

Con la mensa è stata una cosa totalmente diversa, uno andava, mangiava, portava via il suo vassoio e si tornava in reparto. Beh, la mensa non l’ha regalata nessuno, è arrivata dopo scioperi! Non è che siamo entrati al mattino “Oh, vogliamo la mensa”, e il Falck “Pronti, la mensa”». (V.T. 2015, Fondo Dismissioni_LAB).

Generazioni di operai di Sesto che entrano in acciaieria all’inizio degli anni Sessanta e nel decennio successivo, che lavorano nella grande fabbrica fordista negli anni del boom, delle grandi lotte operaie e dell’avvio della ristrutturazione tra anni Ottanta e Novanta; lavoratori che come i loro genitori sperimentano e ripropongono nella loro ricostruzione narrativa la stagione del pranzo veloce preparato a casa e consumato in reparto o, quando si poteva, nell’osteria appena fuori dalla fabbrica.


Questo il racconto di un operaio che prima di entrare in Breda aveva lavorato come cameriere al “Progresso”, un circolo comunista adiacente allo stabilimento Unione della Falck:

«Portavano dietro i loro sacchettini, col prosciutto, il gorgonzola, il bologna, il salamin; i brianzoli coi bergamaschi, e mangiavano lì [al circolo]. E a mezzogiorno uscivano e venivano lì tutti, dovevamo preparare il vino, perché loro venivano sempre o con la schiscêta che dovevano mangiare fredda perché non c’era niente [per scaldarla] o il pacchettino con dentro il bologna, sempre quella roba

lì, e se ciamava scartossèn». (E.C. 2013, Fondo Dismissioni_FDT)

Ed era pratica comune che si occupassero le donne della schiscêta, come si chiamava a Milano il contenitore metallico con forma schiacciata con due scomparti in cui “schiacciare” le due portate che venivano cucinate e confezionate dalla madre o dalla moglie dell’operaio:

«Mia mamma si alzava alle quattro per preparare il sugo e la pastasciutta e il secondo, per i miei fratelli e il mio papà. Per tanti anni mia mamma ha fatto le schiscêta perché non c’erano ancora le mense in Falck − è venuta la mensa in Falck ma quella del “Palazzone” dove però i turnisti non potevano andare perché in mezz’ora di tempo neanche Mennea ci arrivava là! C’era solo una cucina in acciaieria, ma non era una vera e propria cucina, era un posto di ristoro al laminatoio». (G.P. 2013, Fondo Dismissioni_FDT)

Il portavivande poi poteva essere riscaldato direttamente in reparto tenendolo vicino ai forni o più spesso attraverso cucine economiche o scaldavivande presenti nei refettori.

Per gli impiegati, prima della mensa aziendale, c’erano abitudini diverse perché potevano permettersi un pasto caldo presso le trattorie vicine agli stabilimenti:

«Noi andavamo a mangiare al San Clemente, era un locale ben conosciuto a quei tempi perché era all’ombra del campanile di Santo Stefano, e a mezzogiorno c’era questa corsa a mangiare − perché si usciva alle dodici e si rientrava all’una: insomma, c’era veramente da correre. Quando sentivano suonare la sirena a mezzogiorno: “Via!”, cominciavano tutti i preparativi, arrivavano tutti come le cavallette e occupavano i posti. Il locale portava almeno un centinaio di posti e nell’arco di due ore − perché c’erano due turni − facevano duecento coperti, ma proprio pronti, pronti. Uno arrivava lì, ordinava: “Spaghetti!” − via, tac, spaghetti. Il personale che andava lì erano impiegati e dirigenti − per i dirigenti c’era una saletta di dietro apposta. C’erano gli spaghetti o maccheroncini (110 lire) o le tagliatelle (130 lire). Poi bollito o cotoletta 220. Se uno prendeva il filetto andava su 360 lire». (G.M. 2015, Fondo Dismissioni_LAB)

Cameriere della mensa impiegati della Ercole Marelli, Sesto San Giovanni, primi anni Trenta. Archivio storico Ercole Marelli.
Cameriere della mensa impiegati della Ercole Marelli, Sesto San Giovanni, primi anni Trenta. Archivio storico Ercole Marelli.

Poi come si è visto nel corso del Novecento si ottengono le mense aziendali, locali idonei e cucine efficienti, che riflettono l’organizzazione seriale e le dimensioni della produzione di massa: grandi spazi, grandi numeri, trasformazione e distribuzione del cibo attraverso procedure routinarie come i self-service con ritmi di lavoro che si adeguano a quelli dei reparti e dei turni:

«Io facevo la mattina alla mensa dell’acciaieria − cominciavamo alle 11 il servizio − e alla sera lavoravo alla mensa del Vulcano, al decapaggio. Facevamo il turno anche alla sera perché bisognava garantire sempre agli operai di poter mangiare, perché questi venivano giù dalla mattina alle 3 a lavorare quindi alle 11 giustamente già avevano fame. 

La mensa era un self-service, molto attento, molto controllato: il primo turno erano quelli con le quarte squadre e alle 11 si cominciava il servizio, non si poteva sgarrare, e si lavorava fino alle 2 del pomeriggio. Avevamo i cuochi interni, c’erano sempre presenti due cuochi e un aiuto cuoco. Avevamo anche una bella schiera di donne. 

E poi lì ho cominciato a lavorare anche qualche domenica, gli ultimi tempi, perché qualche squadra aveva cominciato a richiedere la mensa anche la domenica, giustamente perché loro lavoravano: prima si portava la schiscêta la domenica, il classico pasto portato da casa, poi sono intervenuti i sindacati, hanno cominciato a fare le richieste, hanno trovato l’accordo col nostro principale e quindi a turno le donne facevano anche il turno la domenica, solo a mezzogiorno, la sera no». (D.F.L. 2015, Fondo Dismissioni_LAB)

Mensa delle operaie della Ercole Marelli, Sesto San Giovanni (Milano), anni Venti. Archivio storico Ercole Marelli.
Mensa delle operaie della Ercole Marelli, Sesto San Giovanni (Milano), anni Venti. Archivio storico Ercole Marelli.

Sara Zanisi

Testimonianze tratte dai fondi:

Fondo Crespi_SSG: Storie di vita di operai e operaie raccolte a Sesto San Giovanni da Pietro Crespi nell’ambito delle sue ricerche su cultura e lingua operaia, negli anni 1977/79.

A.L.C. Anna La Corazza, operaia alla Oms e delegata Fiom-Cgil nel consiglio di fabbrica, intervistata da P.C. nell’aprile 1979.


Fondo Dismissioni_FDT: Storie di vita di lavoratori e lavoratrici (operai, impiegati, ingegneri, manager) raccolte a Sesto San Giovanni, negli 2013/2014 da Roberta Garruccio, Bianca Pastori, Sara Roncaglia, Sara Zanisi nell’ambito del progetto “Farsi, disfarsi, trasformarsi. Le dismissioni industriali a Sesto San Giovanni”.

E.C., operaio Breda, intervistato da B.P., S.R. e S.Z. il 9 maggio 2013

G.P., operaio Falck e delegato Fim-Cisl, intervistato da B.P. e S.Z. il 26 novembre 2013 e da S.Z. il 9 dicembre 2013

G.U., 2014: impiegato Breda e delegato Fiom-Cgil, intervistato da B.P., S.R. e S.Z. il 21 maggio 2014


Fondo Dismissioni_LAB: Storie di vita e di ex lavoratori e lavoratrici delle grandi fabbriche e a nuovi lavoratori del terziario, raccolte a Sesto San Giovanni nel 2014/2015, da Riccardo Apuzzo, Roberta Garruccio, Sara Roncaglia, Sara Zanisi nell’ambito del progetto “Laboratorio Industria. Trasmettere e narrare le culture del lavoro e le metamorfosi degli spazi attraverso gli archivi delle fabbriche di Sesto San Giovanni”.

F.C., ingegnere, dirigente Falck, intervistato da S.R. e S.Z. il 15 dicembre 2014

E.D.F., operaio Falck, intervistato da S.R. e S.Z. il 20 gennaio 2015

R.F., impiegato Falck, intervistato da S.R. e S.Z. il 1 ottobre 2013

D.F:L, impiegata Falck, intervistata da S.R. il 20 febbraio 2015

G.M., ingegnere, dirigente Falck poi imprenditore, intervistato da S.R. e S.Z. il 12 gennaio 2015

R.P., operaio Breda, intervistato da S.R. e S.Z. il 19 maggio 2015

V.T., operaio Falck, intervistato da S.R. e S.Z. il 9 giugno 2015


Immagini sono tratte dalla mostra Pausa pranzo. Cibo e lavoro nell’Italia delle fabbriche a cura di Giorgio Bigatti e Sara Zanisi, in collaborazione con Uliano Lucas e Fayçal Zaouali, promossa da Fondazione ISEC nel 2015, provenienti dai fondi:

• Archivio storico Breda

• Archivio storico Ercole Marelli

• Fondo Odoardo Fontanella